di: Redazione | 27 Giugno 2015
SOMALIA – “Perché siamo qui? Dodici di noi uccisi negli ultimi tre anni, altrettanti feriti, altri costretti al silenzio e altri, come me, al carcere”: Mohammed Bashir Ashi, caporedattore di Radio Shabelle parla davanti a un uditorio di giornalisti riuniti presso la sede del Sindacato unitario dei giornalisti (Fnsi). Parla della sua esperienza e di quella di altri quattro cronisti di una coraggiosa emittente radiofonica di Mogadiscio, arrivati in Italia grazie all’interessamento di Fnsi, Ordine dei giornalisti del Lazio ma anche della Farnesina e dell’associazione Migrare.
Il racconto di Bashir Ashi è il racconto di un giornalista costretto a rischiare la vita e la libertà per amore dell’informazione e della ricerca di verità. Il lato più oscuro è forse il fatto che i cinque giornalisti sono stati costretti a fuggire non perché minacciati da al Shabaab ma perché minacciati in questi ultimi mesi dalle autorità governative.
“Gli ultimi tre anni – dice il giornalista somalo – sono stati segnati da pesanti ingerenze sia da parte delle istituzioni che da parte di quanti si oppongono al governo federale”. Ma la situazione si è ulteriormente aggravata dopo il trasferimento della redazione in un’area sotto controllo governativo. Per Bashir Ashi questo ha significato anche torture e sette mesi di detenzione preventiva senza accuse formali; con periodiche comparsate in un tribunale capace solo di formulare accuse di volta in volta discordanti.
Una situazione, emersa grazie alla giornalista di origini somale e attiva in Italia Shukri Said, verso la quale ha dimostrato immediata sensibilità la presidente dell’Ordine dei giornalisti Lazio, Paola Spadari. L’appello rivolto da Bashir Ashi anche a nome degli altri suoi colleghi è stato alla fine rivolto alla comunità internazionale perché non dimentichi la Somalia e perché si faccia qualcosa anche a protezione di chi cerca di raccontare ogni giorni le vicende di cronaca a rischio della propria incolumità.